“Prende per mano il lettore e gli fa usare la testa senza mai separarla dal cuore”.
Recita così la fascetta color amaranto che impreziosisce la copertina dell’ultimo libro di Vito Mancuso, “Il bisogno di pensare”, edito da Garzanti.
La frase è tratta dalla recensione che ne ha fatto Enzo Bianchi su Tuttolibri, l’inserto culturale del quotidiano La Stampa.
Conoscendo la posizione piuttosto critica del fondatore della Comunità di Bose rispetto ad alcune opere precedenti di Mancuso, che io ho invece letto con grande interesse, sono rimasto favorevolmente sorpreso dal suo commento ed ho pensato che si dovesse trattare davvero di un bel libro.
E così è stato.
In tempi in cui la complessità è mal sopportata, e all’incertezza di prospettive, al diffuso senso di insicurezza e di precarietà della condizione umana, si preferisce reagire affidandosi a pensieri preconfezionati, che banalizzano la realtà per adeguarla all’incapacità o alla non volontà di interrogarsi e di cercare risposte adeguate, sorprende vedere già alla quarta edizione un libro che fa dell’esigenza stessa di pensare l’oggetto della propria riflessione.
Quella di Mancuso è l’opera di un innamorato della filosofia, alla quale il libro è dedicato sin dalla frase in esergo, e che forse, se un limite ha, è proprio la mancanza di distacco che inevitabilmente l’amante ha nei confronti dell’amata.
Ricordando le parole di Cicerone: “Oh filosofia, che sei guida nella vita, che ricerchi la virtù e scacci i vizi! Senza di te, che cosa sarebbe potuto accadere, non dico a me, ma all’intera esistenza umana?”, Mancuso non trattiene i suoi sentimenti ed aggiunge: “Anch’io sono innamorato della sapienza e la penso spesso, le porto i fiori del mio tempo più prezioso, al mattino presto, quando il mondo è colmo di silenzio e di pace e in me si muove un’energia più viva e più pulita. Il mio amore per Sophia genera in me filo-sophia, e per questa passione mi piace chiamarmi filosofo, “amante di sophia”.
In lui il bisogno di pensare è evidentemente un bisogno d’amore, quello vero, che pervade il corpo come un dolore sottile e penetrante. Un bisogno insopprimibile di amare, di spostare il proprio baricentro fuori da sé, accettando tutti i rischi che ciò comporta, in una costante fiducia verso la vita.
Mancuso chiama a testimoni di questo amore i grandi innamorati della sapienza, a partire dai suoi preferiti: Blaise Pascal, Immanuel Kant, Simone Weil, Hannah Arendt, per citarne alcuni.
E’ a loro che chiede di aiutarlo a indagare su questo desiderio di ricerca, a partire dalla sua insopprimibile dimensione individuale.
E lo fa sempre in prima persona, come fece Kant nella Critica della ragion pura quando formulò le tre domande fondamentali: “1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?”, per dire che non sono in gioco questioni accademiche ma la sua e la nostra esistenza, qui ed ora, nella nostra solitudine e nella nostra capacità o incapacità di entrare in relazione con gli altri e con la realtà.
La prima domanda riguarda la conoscenza, la seconda l’etica e la terza la speranza, ossia il sentire spirituale e religioso.
Dopo aver ripercorso le risposte che è possibile dare alle prime due, Mancuso indaga sulla propria risposta alla terza domanda, ed è soprattutto nel ritmo più profondo, di cui parlò Etty Hillesum, che trova le parole per esprimere il momento in cui quella fiducia nella vita diventa fiducia in Dio.
Una fiducia che in lui non fa mai a meno della ragione, convinto com’è che tra credere e pensare, tra teologia e filosofia, non vi sia opposizione di principio, ponendosi così nel solco di una lunga tradizione che egli cita iniziando con le parole di Sant’Agostino (per il quale “la fede, se non è oggetto di pensiero, non è fede”), per finire con quelle di Carlo Maria Martini, indimenticabile Cardinale di Milano (quando disse: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”).
Parole, queste ultime, che trovano un’eco anche in quelle di un filosofo laico come Norberto Bobbio, per il quale “La differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti , ma tra pensanti e non pensanti”.
Mancuso sa che, sfortunatamente, l’amore per la sapienza non si può insegnare, si può solo testimoniare. Ciò non gli impedisce però di tenerci la mano, come ha evidenziato Enzo Bianchi, e di non lasciarla mai per tutto il libro, per poi chiuderlo con una serie di suggerimenti pratici, che ognuno può seguire, ricordandoci che la qualità della vita interiore dipende da noi, dalle nostre scelte.
Tra i tanti, ne scelgo uno, che faccio mio per concludere questo invito alla lettura:
“Sorridere, sorridere anche quando non c’è motivo per farlo, e il motivo arriverà”.
Gaetano Prencipe
One Response Comment
Caro Gaetano,
leggendo la presentazione “Chi siamo”, sul sito dell’associazione politico – culturale Comunità e territorio di cui sei il Presidente, ho condiviso in pieno quanto scritto, soprattutto, nella parte dove tra l’altro si dice:
“…è nei momenti di crisi che una comunità deve mostrare il meglio di sé puntando sulle sue energie migliori, a partire dai giovani. La risposta non può essere dei singoli, di una sola persona né di un singolo partito, associazione o impresa, che sia. C’è bisogno di una risposta corale, che al rancore e alla rabbia espressa sui social, e non solo, sostituisca la proposta ed il dialogo costruttivo”.
Nulla da aggiungere se non che questi buoni propositi, nella nostra Manfredonia, sono stati in passato, e ancora oggi, largamente disattesi…
Non voglio aggiungere altro anche perchè tu conosci benissimo la realtà della nostra “Comunità e territorio”… essendone stato, in passato, uno dei principali protagonisti.
Caro Gaetano, permettimi di dire che occorre avere il coraggio, anche, di gridare “Il Re è nudo…”, altrimenti c’è il rischio di predicare bene e razzolare male!
Cordialità.
Raffaele Vairo