di Domenico Antonio Capone
Quando nel PD si polemizza sul ruolo degli iscritti alla piattaforma Rousseau e sul loro effettivo potere di incidere sulle decisioni del Movimento 5 Stelle, il confronto andrebbe fatto più compiutamente, e più seriamente, con riferimento ai propri iscritti, al loro abnorme moltiplicarsi in previsione di una scadenza congressuale, alle modalità di iscrizione ed al peso che hanno le tessere nella democrazia interna al partito.
La tessera ha indubbiamente rappresentato, specie nell’immediato dopoguerra, uno dei pilastri dei partiti di massa della cosiddetta I^ Repubblica, contribuendo a definire il senso di appartenenza ad una comunità politica, con la pressoché perfetta identità fra l’essere tesserato-militante-elettore. Ma essa si è anche rivelata nel tempo al centro di logiche di potere e di degenerazioni che hanno concorso, non poco, alla crisi degli stessi partiti.
La Democrazia Cristiana si strutturò, specie a partire dalla segreteria Fanfani degli anni ’50 (quando la Balena Bianca si diede un’organizzazione capillare sul territorio, speculare a quella comunista) proprio in ragione dell’esistenza di plurime correnti, il cui peso era determinato dal monte tessere su cui ciascuna poteva contare. Con esiti, in particolar modo nel Meridione, ben lontani da quella dialettica interna, agognata da Dossetti, indispensabile per garantire, pur nella diversità, l’unità politica dei cattolici. La capacità di raccogliere tessere, piuttosto che coinvolgere nel concreto l’iscritto alle ragioni di una corrente, divenne una delle principali competenze dei vari cacicchi, dei numerosi capi-bastone che regolavano la vita politica a livello locale.
Anche nel Partito Comunista, nonostante il centralismo democratico e il “divieto di frazionismo”, nei fatti vi erano delle correnti interne, seppur non strutturate e declinate in semplici tendenze; così come logiche distorte simili a quelle democristiane. Ma qui il tutto era maggiormente sublimato da un forte senso di appartenenza, da un vero e proprio anelito per la “causa”, da un certo sentimento di superiorità morale.
Nella prolungata crisi dei partiti, maturatasi nel corso degli anni ’80 ed esplosa con l’avvento di Tangentopoli, il trinomio, non sempre perfetto, tesserati-militanti-elettori diede ancora qualche segno di estrema vitalità: le interminabili ed animate discussioni interne che segnarono la lunga e travagliata fase di passaggio dal PCI al PDS, ben immortalate da Nanni Moretti nel suo “La Cosa”, ne sono un esempio. Ma questo passaggio non fu esente da giochi e lotte correntizie, sia nel PDS che nei futuri DS, sempre incentrate sulla corsa al tesseramento.
Si è lontani dalla verità, infatti, se si pensa che il ruolo delle tessere nella vita politica di sinistra si sia depotenziato con la nascita della cosiddetta II^ Repubblica, contraddistinta dal crollo delle grandi ideologie novecentesche e da un elettorato sempre meno solido, con partiti, nei fatti, non più di iscritti ma di programma, in grado di accogliere di volta in volta un bacino variabile di sostenitori. Anzi, è proprio a sinistra, in un Partito Democratico erede di gran parte delle forme e dei momenti associativi dei partiti di massa (direzioni; assemblee nazionali; congressi; feste collettive), che le tessere hanno giocato sin dall’inizio un peso decisivo.
Dopo i disastrosi risultati elettorali del 4 marzo, occorre ripartire anche dal chiedersi cosa ci sia dietro una tessera del Partito Democratico. Certamente anche dei militanti, persone che credono nelle istanze del partito e nei suoi valori di riferimento (specie fra i più giovani, ma in misura nettamente minore rispetto al passato) o che nutrono una qualche forma di nostalgia e di attaccamento fideistico (specie fra i più anziani) a ciò che è rimasto della “Ditta”. Il più delle volte, però, vi sono solo degli ologrammi di possibili elettori. Spesso dei veri e propri fantasmi. Perché “il gioco delle tessere”, in cui la tessera non viene richiesta dal singolo ma offerta se non addirittura affibbiata inconsapevolmente, da chi ha i dovuti mezzi economici e le dovute reti sociali per farlo, ha finito per inaridire la vita del PD, appiattendo forme di vera discussione e deprezzando le energie migliori esistenti.
Un partito così ibrido, ormai di programma, ma con forme di vita sia da partito novecentesco di massa che da partito tardo-ottocentesco di notabili, riduce la democrazia al suo interno a mero vessillo da ostentare contro il M5S, con la sua democrazia diretta e la sua tanto discussa piattaforma Rousseau. Se pertanto alla prova dei fatti, tenendo in considerazione le positive eccezioni, conta chi più ha da spendere in tessere, per onestà intellettuale ci si dovrebbe definire come Partito Plutocratico, e non Democratico!
Forse è arrivato il momento di ricominciare a ri-tessere un partito, piuttosto che perseverare in questa logica degenerata da partito di sole tessere! Nella convinzione, però, che il vulnus descritto non lo si elimina abolendo sic et simpliciter le stesse tessere: anche in movimenti basati sulla semplice adesione on-line come il macroniano En Marche! si assiste, infatti, a certe derive plutocratiche, con segretari imposti dall’alto senza la pur minima forma di seria discussione fra i partecipanti.
È indispensabile piuttosto ricostruire un vero tessuto democratico, individuando le motivazioni essenziali del nostro agire e del nostro stare insieme, riscoprendo il valore del dibattito, della dialettica, della sintesi ma anche del più positivo scontro fra posizioni differenti. Concentrandosi soprattutto sul valore della prossimità, vero pilastro dell’agire politico, e considerando il singolo non come mero soggetto a cui affibbiare una tessera per legittimare il proprio potere all’interno del Partito, ma come individuo con cui cercare di costruire, con il fare politico, una visione altra di società; cimentandosi, a livello locale, nel trovare una soluzione concreta, realistica, democratica ai problemi della città nella quale si vive.
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