Quella del nuovo porto turistico di Manfredonia è la storia di un’impresa che ha cambiato il volto della città, proiettandola nel suo futuro, e che deve la sua esistenza agli uomini che quell’impresa l’hanno fatta e, ancor prima, l’hanno sognata, ideata, progettata e realizzata , ognuno per la propria parte e per il tempo che li ha visti o che li vede impegnati. Un’opera per molti versi al di sopra delle possibilità del territorio che l’ha espresso e di tutti quelli che, a vario titolo e in varia misura, hanno partecipato e consentito la sua realizzazione.
Un storia di successo, in una terra abituata agli insuccessi, e nello stesso tempo avara di riconoscimenti nei confronti di chi vi riesce, anche se a costo del sacrificio personale.
Si, perché, quell’opera è stata realizzata grazie ai fondi messi a disposizione dal famigerato Contratto d’Area, e precisamente ai fondi non utilizzati o caparbiamente fatti restituire da chi li aveva inizialmente presi e senza avere realizzato le attività per le quali erano stati loro assegnati. Ma anche, e direi soprattutto, grazie alle risorse dei privati che vi hanno lavorato e che l’hanno gestita, dal barcollante inizio sino ad oggi, con una società, la GESPO s.r.l. , che nel mondo degli insetti volatili paragonerei al calabrone: un insetto che tecnicamente non potrebbe volare eppure vola, a dispetto della scienza. E così la GESPO, a dispetto dei benpensanti e dei tanti detrattori, è una società che continua a vivere pur essendo stata pensata male e gestita peggio. Ma vive perché dalla sua vita è dipesa e dipende quella del porto turistico.
La GESPO ha infatti vissuto e vive a dispetto delle disavventure che hanno colpito a morte società come la MUCAFER, fatta da uomini valorosi e imperfetti, ai quali si deve ogni fase del progetto, dalla sua prima ideazione alla sua realizzazione e che, come Abramo, mi si passi il confronto, hanno attraversato il deserto per raggiungere la terra promessa senza però poterla vedere. O come la MOTEROC e i suoi due titolari, veri gentiluomini, che di quel porto conoscono ognuna delle pietre che ne costituiscono le fondamenta , perché le hanno prelevate e trasportate dalle cave di Apricena e le hanno collocate per le opere di colmata, e che proprio per via di quelle opere hanno perso l’azienda e il loro patrimonio. O, ancora, come le tante piccole imprese locali che hanno contribuito a costituire la variegata compagine societaria della prima fase realizzativa e che, com’è successo a quelle di maggiori dimensioni, vi hanno lasciato parte del loro lavoro trasformandolo in credito postergato o, per i non soci, in crediti non riscossi o riscossi solo in minima parte se non ancora da riscuotere. E poi vi è anche chi al momento della necessità vi ha messo i capitali che mancavano e senza i quali non avrebbe potuto sopravvivere, compresa una banca come MPS, che ha recuperato solo una minima parte del generoso finanziamento. Infine vi è l’opera oscura ma essenziale di tanti professionisti che vi hanno collaborato (da quelli che hanno lavorato all’ attività tecnico-progettuale a quelli che hanno prestato attività di consulenza economico-finaziaria, legale e societaria, ai vari organismi di revisione).
Qualcuno oggi la racconta solo come una storia di crediti e debiti, e sottolinea come i conti non tornino, ma in realtà non tornavano nemmeno all’inizio, quando quei conti stavano solo sulla carta e a spingere per la bontà dell’investimento era piuttosto il sogno e la passione che ispirava quegli uomini e la convinzione di poter riuscire a dare al proprio territorio un’opera straordinaria, a costo di rimetterci l’osso del collo, com’è purtroppo avvenuto per alcuni di loro.
GESPO è molto più di una storia di crediti e debiti ed a saperlo dovrebbero essere soprattutto quelli che hanno contribuito a farla l’impresa e che oggi sembrano testardamente impegnati a disfarla, dando quotidianamente al giornale L’Attacco (altro calabrone di successo, al quale, lo dico sinceramente, non c’è che da augurare lunga vita ma con punture meno astiose), materiale per un de profundis, fatto di lancinanti accuse reciproche e di dati estrapolati dai documenti ufficiali e forniti fuori contesto per armare i contendenti o per distribuire pop corn a chi si gode lo spettacolo dalla tribuna.
Per concludere, al netto degli errori e delle operazioni imprenditoriali e societarie non sempre ineccepibili, per usare un eufemismo, va detto che, piaccia o non piaccia, la sopravvivenza di Gespo ed il buon fine di questa storia imprenditoriale, se nella fase finale della realizzazione e nella seconda fase della gestione ha visto in Gianni Rotice l’efficace risolutore, l’attuale fase vede nei fratelli Gelsomino gli uomini della provvidenza, ai quali spetta il compito di assicurare a GESPO, di cui sono diventati unici soci, la visione, la strategia imprenditoriale, la competenza gestionale e il grande sostegno finanziario di cui il porto turistico ha bisogno.
Oggi è nelle loro mani il buon fine di questa storia, fatta ancora una volta di molti oneri e di pochi onori. E gli va augurato solo “buon vento”, per far sì che GESPO navighi finalmente in acque più tranquille e Marina del Gargano diventi il porto più sicuro, oltre che il più bello dell’Adriatico.
Gaetano Prencipe*
*dal “Diario minimo di un consigliere comunale”.
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