di Siponta De Leo e Nicola di Bari
La storia economica ci insegna che la fortuna di territorio è in gran parte frutto del lavoro delle donne e degli uomini che vi abitano, più che della generosità o meno della natura. E questo è ancora più vero nella quarta rivoluzione industriale, dove lo sviluppo tecnologico e la digitalizzazione hanno trasformato l’economia e la società, rendendo tutto più accessibile e raggiungibile ed eliminando di fatto ogni barriera fisica e culturale.
L’essere umano è da sempre costruttore e artefice del suo territorio, sia nel bene che nel male. Oggi, per chi ha accesso alle nuove tecnologie, le difficoltà poste dalla natura o dalla collocazione geografica sono un limite invalicabile solo per chi non ha obiettivi e strategie da perseguire e non ha amore e passione per la propria terra.
Potremmo fare migliaia di esempi, in Italia e nel mondo, di territori apparentemente svantaggiati che hanno ugualmente conosciuto sviluppo, crescita e benessere.
Sono quelli in cui i governi locali si sono dimostrati capaci di creare punti di attrazione per i giovani e con loro di costruire reti e di rispondere alla globalizzazione con la creazione di una forte identità del territorio, delle sue tradizioni, della sua cultura.
Valga per tutti un esempio tratto da un bel libro-ricerca, curato da Hugues de Varine, uno dei maggiori esperti europei di sviluppo locale. È quello di alcuni comuni francesi che sono riusciti a collegare territori, economia, cultura e nuove attività in un progetto di sviluppo unitario, costituendo comprensori che riuniscono più Comuni (Comunità di Comuni) in crisi e impoveriti, compreso alcuni in stato di abbandono. Hanno ideato un progetto di sviluppo che poi per anni è stato la guida, la bussola per tutti. Dopo aver analizzato a fondo, anche con l’aiuto della loro Università, le cause dell’abbandono dell’economia rurale, hanno iniziato a modernizzarla, assistendo gli operatori con tutta una serie di strumenti tecnici, scientifici e commerciali per fare meglio sia nella produzione che nella commercializzazione e nell’integrazione con il settore turistico.
Avere cura ed amore per il nostro territorio è condizione imprescindibile per lo sviluppo.
Nel corso degli anni Manfredonia, espressione di una civiltà antica, ha subito continui stravolgimenti, che in alcuni casi hanno prodotto evidenti disastri ambientali, urbanistici, architettonici, culturali, ma anche sociali ed economici.
Di fronte a derive così vaste vi sono sempre cause profonde e complesse e quasi sempre idee politiche ed economiche sbagliate. Le responsabilità ricadono su tutti, perché la tutela di una città deve essere assunta in proprio da tutti i cittadini. Troppo facile scaricarle tutte sulla politica e sulle istituzioni in genere. Se le scelte scellerate non sono state contrastate da una cittadinanza attiva è perché direttamente o indirettamente hanno dato un beneficio ai più, sebbene di breve periodo.
La speculazione, la cattiva gestione amministrativa, l’incompetenza, la mancanza di cultura sono le cause penultime di tanti colpi inferti alla città; la causa ultima è la disaffezione verso il proprio territorio, una mancanza di amore per la propria patria locale, che ha consentito per tanti anni l’impoverimento, il degrado, il disastro finanziario pubblico e il rischio di infiltrazione di poteri criminali dentro l’apparato pubblico e nell’economia.
Da dove ripartire per suscitare un progetto di sviluppo?
A mio avviso, da tre fattori di crescita: il territorio, le persone e il loro livello di civiltà e di passione.
Alla base dev’esserci proprio una ritrovata coscienza del territorio come bene comune.
Veniamo da un lungo periodo nel quale il territorio è stato interpretato dalla classe politica e imprenditoriale come semplice spazio geografico, come semplice luogo da utilizzare e, possibilmente sfruttare a beneficio di pochi e a impoverimento dei tanti.
Questa impostazione socio-economica e culturale ha portato progressivamente il cittadino a disinteressarsi del territorio e del suo destino. Il risultato è una città priva di vera identità, con perdita di relazioni, saperi e coscienza dell’essere abitanti.
Bisogna ripartire dal territorio, dalla sua comunità, dalle infinite possibilità che oggi abbiamo grazie alle nuove tecnologie, ai nuovi bisogni emergenti, alle opportunità che offre un mondo globalizzato e senza confini. Il nostro territorio deve ritornare ad essere sintesi di identità, storia e cultura. Un territorio che non è più un mero dato di fatto, ma un soggetto vivente, dotato di identità sociale, ambientale, di saperi peculiari, da proteggere e da amare. Un territorio che ritorna ad essere patria e casa.
La strada è lunga e difficile. Ma la lunga marcia, come dice il proverbio, inizia con i piccoli passi.
I riferimenti che consentono di non smarrirsi sono: il buon governo della città, un tessuto di imprese solide, sostenibili e con grande responsabilità sociale, e la comunità, in grado tra loro di costituire anche un contrappeso (ciò che non è stato negli scorsi anni, nei quali pezzi di politica e di imprenditorialità speculativa e spregiudicata si sono sviluppati in modo abnorme a discapito della comunità, impoverendola sempre di più).
La chiave per uscire dalla crisi può essere quindi un localismo inclusivo, capace di riequilibrare i poteri della politica, dell’economia e della comunità, una comunità inclusiva e permeabile alle idee esterne.
Di fronte ad una comunità impoverita, in cui cominciano ad emergere tensioni sociali, servono nuove politiche capaci di trasformare il welfare locale e immaginare un nuovo modello di sviluppo sociale ed economico (basato sulla nostra identità, sulla nostra cultura e sui nostri vantaggi comparati, sfruttando tutte le occasioni che ci vengono date dalla quarta rivoluzione industriale).
In una recente visita ad una cooperativa sociale a Manfredonia, il Prefetto Piscitelli ha espresso ai presenti la seguente opinione: “per far rinascere la città non è sufficiente scrivere quali possono essere le soluzioni, anzi, scrivere può essere controproducente, perché puoi farti solo nemici futuri. Sarebbe meglio fare e dare l’esempio”.
“Come non essere d’accordo”, gli è stato risposto da uno degli autori dell’articolo, presente alla visita in quanto Presidente della cooperativa, che ha aggiunto:“l’ottimo sarebbe fare, dare l’esempio e poi scrivere e non aver paura delle conseguenze”.
Per concludere, sembra anche qui calzante una citazione tratta dal Giulio Cesare di William Shakespeare, che è sempre utile ricordare “ I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l’uomo coraggioso non assapora la morte che una sola volta”.
Allora, buona strada a tutti.
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