di Gaetano Prencipe

Se dovessi stilare una lista di libri per un corso di formazione all’impegno politico ne inserirei  uno appena uscito per la collana Sympathetika delle Edizioni Qiqajon, dal titolo “Spiritualità e politica”.

L’autore è Luciano Manicardi, priore della Comunità di Bose dal 2017, anno in cui è succeduto al fondatore Enzo Bianchi. Un monaco, quindi. Per giunta, un biblista. Ma di citazioni bibliche nel libro ne troverete poche, tre in tutto, sebbene dalle riflessioni proposte emerga di continuo lo spessore esistenziale e la sapienza di vita che solo una quotidiana frequentazione della Scrittura consente di acquisire.

Davvero singolare, se si considera il tema trattato, in tempi in cui non solo le omelie ma anche gli interventi di laici impegnati sull’argomento tradiscono la difficoltà di annunciare il messaggio evangelico nel tempo e nello spazio che ci è dato di vivere.

Un libro agile, di appena 80 pagine, ma denso nel contenuto e ricco di spunti di riflessione.

Vi chiederete: cosa c’entra la spiritualità con la politica? Non appartengono a due mondi tra loro estranei se non antitetici?

La spiritualità qui è dichiaratamente intesa non nel senso religioso o confessionale bensì come luogo e momento di ricerca e di comprensione del senso del vivere.

L’intero libro è attraversato dal riferimento al celebre ritratto che dell’uomo politico ha fatto Max Weber, per il quale la qualità della politica è direttamente legata alla qualità umana di chi s’impegna in essa, alla sua profondità, alla sua capacità di governare se stesso, di mettere ordine nel proprio caos interiore, di saper soffrire e sopportare le avversità.

Se la politica, come sosteneva Hanna Arendt, nasce tra gli uomini e si afferma come relazione necessaria tra me e l’altro, per Luciano Manicardi “in quella relazione, in quel ‘tra’, nello spazio vuoto tra gli uomini, tra me e l’altro, tra me, l’altro e il terzo, tra noi e gli altri, dunque nello spazio interpersonale e sociale,  la politica incontra anche la dimensione spirituale”.

Manicardi-bose | Comunità e territorio

Per l’autore, “coltivare l’interiorità è il primo passo per la costruzione e la partecipazione feconda alla vita della polis, perché luogo dove si forgia la libertà, dove si elabora la convinzione che conduce a scelte e decisioni, dove matura la forza di dire di no, dove si pensa l’oggi e si immagina il futuro”.

Questo perché non esiste solo il “tra” che separa gli uomini, ma c’è uno spazio anche tra me e me in cui si inseriscono le domande sul senso del mio essere al mondo e le modalità di relazione con gli altri e il mondo. Anche questo “tra” ha valenza politica e indica che un primo aspetto del rapporto tra spiritualità e politica riguarda proprio la vita interiore.

Si tratta di una dimensione profonda e nascosta dell’uomo politico, che si coltiva nella solitudine, nell’esercizio dell’arte del conoscere ed esaminare se stessi, del dialogo e della lotta interiori, del pensiero e della riflessione, della capacità di reggere all’urto di situazioni sfavorevoli e disperanti, senza lasciarsi abbattere.

Ecco perché parlare di spiritualità e politica richiede anche che si parli della qualità umana della persona che si dedica alla politica, che cioè sente la “vocazione” alla politica fino a volerne fare una “professione”, due termini che in tedesco sono espressi da una stessa parola, “beruf”, che unifica le due dimensioni etiche della responsabilità e della convinzione, sottolineate da Weber nel suo saggio “La politica come professione”.

Manicardi ci ricorda che la straordinaria forza dimostrata da alcuni uomini politici del passato è connessa proprio alla loro profondità spirituale.

Tra questi,  ne ricorda in modo particolare due: Gandhi (per il quale le difficoltà che un paese attraversa vanno considerate come opportunità per servire e come sfide per stimolare l’intelligenza e l’immaginazione, cogliendo in ogni cosa l’opportunità di scegliere se vivere per se stesso o per gli altri, sapendo che ” per poter trasformare gli altri, dobbiamo prima trasformare noi stessi”), e Dag Hammarskjöld , segretario generale dell’ONU dal 1953 fino alla tragica morte nel 1961 (insignito con il premio Nobel per la pace alla memoria nello stesso anno), il cui diario, pubblicato postumo, ha svelato la personalità di un uomo di profondissima statura spirituale, che alle responsabilità politiche di portata mondiale univa la coltivazione del dialogo interiore, nella convinzione chele domande che sono alla base di una vita spirituale non sono un affare privato , ma possono e anzi debbono alimentare un impegno pubblico”.

Ovviamente, custodire e coltivare l’interiorità serve a tutti e non solo a chi decide di dedicarsi alla politica, perché lo spazio interiore è il primo spazio di libertà in cui coltivare la rivolta, in cui iniziare ad immaginare e pensare qualcosa di alternativo allo stato attuale delle cose.

In particolare, per l’Autore, chi si dedica alla politica deve sviluppare tre facoltà: l’immaginazione, la creatività e il coraggio.

L’immaginazione è quella che ti dà la forza di non arrenderti al reale e la capacità di tenerti in vita nutrendo la speranza anche nelle situazioni più buie, perché “è all’origine di visioni profetiche del mondo e di utopie che trascinano la storia e la trasformano”.

La creatività è invece la capacità di sorprenderti e di rispondere a ciò che accade intorno a te, nella consapevolezza e nel rispetto della tua originalità, accettando di affrontare i conflitti, rifuggendo il conformismo e la rassegnazione.    

Infine, il coraggio, che è la virtù di dare inizio, di passare dall’intenzione all’azione, di osare qualcosa di difficile e di mostrarti determinato nel perseguire con coerenza l’obiettivo . Anche esponendoti alla derisione, al disprezzo e al rischio dell’incomprensione e dell’emarginazione.

Tre virtù tenute insieme dalla parola, che svolge un ruolo fondamentale nell’edificazione della polis, perché è ciò che fa dell’uomo un essere politico.

Se la democrazia vive di parole scambiate, di confronto di opinioni, di dibattiti, di parole che stringono alleanze, di parole condivise che diventano leggi, la corruzione delle parole corrode la stessa democrazia: “Quando nello spazio pubblico e da parte di chi ha responsabilità della cosa pubblica, e poi dalla stampa e dai mezzi di informazione la parola è svilita, abusata, manipolata, distorta, utilizzata come arma, allora viene destabilizzato il terreno di intesa democratica”.

E quando la gente perde fiducia in quello che sente finisce spesso con il ricorrere alla violenza. Specie se ad essere tradite sono le promesse elettorali.

L’Autore ricorda che “Promettere e mantenere le promesse è ciò che consente di creare un clima di fiducia tra generazioni, tra padri e figli, tra responsabili politici e cittadini (…). Chi promette si sottomette e obbedisce alla parola che pronuncia, ma si lega anche a un’altra persona, a degli elettori, e impegna il proprio tempo, le proprie energie, il futuro, in vista di dare realizzazione alla parola”.

Per questo, in sé  “la promessa non è arrogante, è volontà umile: nel promettere io so di affrontare l’incognito, in me e negli altri. E mi dispongo a pagarne il prezzo. (…) Con la promessa si gettano le basi di prevedibilità e di fiducia in un contesto in cui l’imprevedibilità rischia di farla da padrona e tenere le persone in una situazione di insicurezza paralizzante”.

La costruzione della polis occidentale si fonda sulla facoltà di fare e di mantenere promesse. La stessa stabilità della polis, della convivenza sociale, si fonda sul rispetto delle regole, degli accordi, dei patti, delle alleanze.

L’uomo politico è allora chiamato a diventare (e a rimanere) “uomo di parola”, capace di parresia (franchezza, libertà, audacia), che osa una parola veritiera, limpida e rigorosa, ed è disposto a pagarne il prezzo. Una persona che promette e mantiene le promesse.

L’uomo di parola deve però avere l’attitudine fondamentale all’ascolto, perché, per dirla con Emmanuel Levinas, “ Parlare e ascoltare sono una sola cosa, non si alternano”, ed esigono tempo, pazienza e disponibilità  a rimuovere i pregiudizi verso l’altro.

Al cuore di questa riflessione troviamo il senso di appartenenza alla polis, invenzione greca finalizzata, secondo Hanna Arendt, a sfuggire alla precarietà e transitorietà delle vicende umane. Una polis intesa come comunità di persone, cui si desidera appartenere più per donare che per prendere o possedere. Per donare agli altri tempo, presenza, ascolto e parola, tutti fili necessari per tessere quotidianamente la tela della comunità (dal latino com-munitas, che, ci ricorda l’Autore, contiene il riferimento alla parola munus, dal duplice significato: da un lato indica dovere, obbligo, compito, e, dall’altro, dono, da fare e non da ricevere).

Per l’Autore, alla base dev’esserci il desiderio di una comunità di persone diverse tra loro, che vivono nel rispetto e nel riconoscimento reciproco, nell’accoglienza e nell’uguaglianza, nella non violenza e nella condivisione; una comunità che si sgretola regolarmente nell’urto con la storia, eppure puntualmente rinasce.

Ma perché la polis rinasca è indispensabile che vi siano donne e uomini di buona volontà che si facciano carico di ricostruirla, oggi come nel passato.

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