Non è usuale scrivere la storia di uno sguardo e se lo faccio è perché forse merita la vostra attenzione.
Avrò avuto circa vent’anni quando, sfogliando un settimanale, rimasi folgorato nell’osservare una piccola foto in bianco e nero che ritraeva Biagio Marin, un anziano poeta friulano mai visto prima e di cui non avevo mai sentito parlare.
Non sapevo ancora che già Pierpaolo Pasolini, nell’Antologia “Poesia dialettale del novecento”, del 1952, che lo fece per primo conoscere, e successivamente Carlo Bo, Andrea Zanzotto fino a Massimo Cacciari e Claudio Magris, parlavano di lui come uno dei più grandi poeti italiani del novecento. Solo per farne un cenno, si è scritto di lui, nato e vissuto a Grado, e quindi sul mare (da cui traeva grande ispirazione), che nella sua poesia “l’eternità non sta altrove, in una dimensione irraggiungibile, ma traluce continuamente nelle “maschere” del reale, creando attimi di perfetta gioia: eterni perché pieni, non mancanti di nulla, in se stessi compiuti e quindi sottratti per sempre alla rovina del tempo” (Rossana Rolando).
Quello che allora più mi impressionò fu appunto lo sguardo di quell’anziano signore, dimesso nel vestire e nella postura, ma che sprigionava una luce interiore così intensa da entrarmi dentro come una lama.
Conservai in un cassetto la pagina con la foto ed ogni tanto andai a rivederla, lasciandomi a lungo interrogare da quello sguardo, al punto che qualche anno dopo quel volto riaffiorò in un mio quadro (quello che vedete nella foto) con il titolo “Il cerchio della santità”, insieme ad una ventina di altre opere che componevano la mia prima mostra di pittura, dal tema “Il volto, la maschera, lo sguardo”, tenuta nell’ormai lontano settembre 1985. In quei giorni vidi scene commoventi di persone che tornavano a rivedere la mostra soprattutto per sostare in silenzio davanti a quel quadro, catturati e quasi commossi da quello stesso sguardo (tra questi, lo seppi dopo, anche uno storico locale, che mi inserì precocemente nell’elenco dei pittori manfredoniani in un voluminoso libro pubblicato di lì a poco).
Vi assicuro che ebbi numerose offerte di acquisto, con insistenze anche imbarazzanti e a prezzi a dir poco lusinghieri per un pittore alla sua prima mostra, ma decisi di tenerlo per me.
Speravo di poter un giorno incontrare Biagio Marin per ringraziarlo e per confidargli ciò che nel quadro era appena accennato ma seppi che era deceduto nel dicembre dello stesso anno, all’età di 94 anni. Nell’occasione, seppi anche di un rapporto quasi filiale intercorso tra lui e lo scrittore Claudio Magris, che aveva in seguito curato anche la nuova pubblicazione delle sue poesie. Mi dissi che avrei potuto parlarne con lui (di cui avevo appena letto “Danubio”), cercando un’occasione per incontrarlo, ma in realtà non ne feci nulla. Fu così che quando nel 2019 Garzanti pubblicò il suo nuovo libro, dal titolo “Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio Marin” mi feci coraggio e contattai un editor della casa editrice, che conoscevo e che per pura casualità collaborava proprio con Magris per la pubblicazione delle sue opere. Chiesi a lui di fargli pervenire la foto del quadro, che gli inviai con una lettera di accompagnamento in cui provai a raccontargli grosso modo quello che ho appena scritto e qualcosa in più sul titolo che avevo dato al quadro e sul tema della mostra nella quale l’avevo inserito.
Ecco uno stralcio della lettera di risposta che mi è giunta nei giorni successivi, firmata a penna da Magris: “… nel caso di Biagio Marin, anche solo a giudicare dalla fotografia, Lei ha colto a fondo. Ne ha colto soprattutto lo sguardo, cosa che mi ha colpito e commosso profondamente; è veramente segno di una creatività geniale aver colto così a fondo uno sguardo che non si è mai visto direttamente. Certo, è anche giusto quel titolo, il cerchio della santità, una santità che è forse quella stessa della vita. La ringrazio per avermi mandato quella fotografia e grazie per quello che mi dice del mio “Danubio”. Un caro saluto”.
Per concludere, aggiungo solo che quel quadro mi fa compagnia tutti i giorni, perché è appeso sulla parete di lato alla mia scrivania, ma confesso che non sempre ho il coraggio di incrociare quello sguardo, perché sembra talvolta rimproverarmi di avere lasciato all’arte uno spazio fortunatamente ancora vivo e palpitante ma troppo limitato nella mia vita, in cui hanno prevalso gli impegni civici e politici, oltre a quelli professionali, già di per sé gravosi. Mi consola il fatto che non c’è persona che nell’entrare nel mio studio non ne venga attratto e non mi induca a fare almeno qualche cenno alla storia di quello sguardo, che mi sono deciso a condividere con voi in questa mattina di silenzio elettorale.
Gaetano Prencipe*
*dal “Diario minimo di un consigliere comunale”.
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