di Gaetano Prencipe
“T’aggh’ mangià ‘u cor’” è la minaccia tratta dal colloquio intercettato tra due boss del Gargano che, tradotta in italiano, dà il titolo al libro pubblicato lo scorso maggio per i tipi della Feltrinelli, scritto da due autorevoli giornalisti del quotidiano La Repubblica, Carlo Bonini e Giuliano Foschini.
Un titolo forte, che rimanda a forme di crudeltà che si pensava appartenenti ad un’epoca in cui l’uomo lottava per la sopravvivenza, affermando così la sua supremazia sul mondo animale, e che invece non sono molto diverse da quelle raccontate in questo libro, che ha come sottotitolo “Nell’abisso del Gargano. Una storia feroce”.
Parla di noi, del nostro territorio e delle vicende di sangue realmente accadute negli ultimi 20 anni a Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Vieste, Sannicandro Garganico, San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo, Apricena, tratte dalla cronaca, dagli atti giudiziari e dai resoconti della Commissione Parlamentare Antimafia.
Inizia con quella di straordinaria ferocia che nel 2012 vide come protagonisti proprio tre ragazzi di Manfredonia, trent’anni il più grande e venti gli altri due, e finisce con la strage del 9 agosto 2018 nelle campagne di San Marco, passando per numerosi omicidi efferati, che spesso hanno come denominatore comune lo sfregio del volto della vittima a colpi d’arma da fuoco, quasi a volerlo cancellare.
Un racconto che ci riconsegna volutamente un’immagine del Gargano molto diversa da quella olografica cui siamo affezionati e che continuiamo a pubblicizzare a beneficio dei vacanzieri, con le foto dei nostri centri storici, dell’incantevole costa, della meravigliosa Foresta Umbra …, e del turismo che profuma d’incenso, che lo vorrebbe costantemente avvolto dall’alone di santità che promana dalla presenza della tomba di San Pio da Pietrelcina e del santuario di San Michele Arcangelo, con la sua spada sguainata, pronta a colpire il drago sotto di lui.
Ed invece, per i due giornalisti, è la “mafia garganica” che ha sotto il suo tacco ogni singolo commerciante e imprenditore di questo paradiso di due milioni di turisti l’anno , costantemente schiacciati dalla paura.
Per l’ex Questore Piernicola Silvis, sentito dalla Commissione antimafia nel 2014, “non c’è un solo esercente pubblico, commerciante del Gargano, che non venga sistematicamente estorto”.
Un Gargano che con le sue storie di mafia contribuisce fattivamente al bilancio complessivo dell’attività criminale dell’intera Capitanata, in cui le famiglie si contendono l’esclusiva dei singoli territori e dei suoi traffici senza risparmio di colpi: 360 omicidi in trent’anni. Rimasti per lo più impuniti, non essendovi mai stato un collaboratore di giustizia.
“Qui non c’è mai stato il passaggio da un modello rurale ad uno urbano, imprenditoriale e finanziario, come è invece avvenuto nelle altre organizzazioni mafiose meridionali – racconta il dott. Gatti, uno dei sostituti procuratori della Procura Distrettuale Antimafia – I reati classici continuano a essere il traffico di droga, di armi, il riciclaggio, l’usura, le estorsioni e le rapine. E le risorse che vengono accumulate sono normalmente investite in case, terreni, automezzi, bestiame – cavalli, soprattutto – conti correnti bancari, società individuali e s.r.l.”.
Una mafia che si perpetua di padre in figlio, che non ha rituali e che conosce solo la “teologia del sangue”.
Non a caso in copertina c’è una foto virata in rosso di David Seymour (un grande fotografo di guerra della Magnun Photos, morto nel ’56), che ritrae la scena di una processione del Venerdì Santo con la statua Gesù morto tra le braccia di Maria, portato in spalla da penitenti con in capo corone di spine. Una foto tratta da un reportage sul sud Italia della fine della seconda guerra mondiale ma che potrebbe essere scambiata con una degli anni 2000, se non fosse per la divisa dei carabinieri dell’epoca, tanto quei rituali si ripetono uguali fino ad oggi.
Cosa c’entri la religione con i fatti di cronaca narrati nel libro non è dato però capire. Così come nulla si dice del tessuto sociale ed economico che vive in rapporto con questi gruppi organizzati. Qui è il limite del libro. Le uniche analisi sono quelle dell’ex questore e degli esponenti della DIA, riprese dai documenti ufficiali.
Certo, significa anche che, oltre alle loro e a quelle di altri operatori di giustizia e dell’Associazione Antimafia Libera, in questi anni non vi sono state altre voci che in questo territorio si siano alzate né ambienti nei quali si siano prodotte particolari analisi e riflessioni sull’argomento. Vi è stato piuttosto un silenzio che oggi fa sempre più rumore.
L’impressione complessiva che se ne trae è però che per i due autori, come per l’opinione pubblica e le istituzioni nazionali, questa quarta mafia costituisca una scoperta recente, verso la quale lo sguardo non riesce ancora ad andare oltre la superficie dei fatti di cronaca, che messi uno dietro l’altro arrivano a colpire il lettore fino a stordirlo.
In ogni caso è bene che il libro venga letto e che se ne parli, e che lo si faccia anche cogliendo la disponibilità degli stessi autori ad essere presenti, com’è avvenuto già nelle scorse settimane a San Severo, a Foggia e , da ultimo, a Mattinata, nel piazzale esterno alla Parrocchia SS. Maria della Luce, dov’è stato presentato.
Parlarne aiuta di sicuro a conoscerla, e a prenderla maggiormente sul serio.
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