di Gaetano Prencipe
Il cortometraggio “ Le isole delle acque verdi”, sceneggiato da Franco Mastroluca e diretto da Gigi Giuffrida, nel quale vengono rievocati gli anni dal 1935 al 1943, quando le Isole Tremiti furono sede di un confino di polizia per gli oppositori al regime fascista, mi ha riportato alla mente una pagina del libro di Altiero Spinelli, “Come ho tentato di diventare saggio”, edito da Il Mulino (2006), nel quale l’autore del Manifesto di Ventotene racconta una vicenda che si svolse proprio alle Isole Tremiti ma che ebbe un’eco immediata anche a Ventotene e negli altri luoghi di confino.
Scrive Spinelli a pag. 258 della sua autobiografia:
“Nel 1938 ci fu l’unico tentativo della polizia fatto con una certa metodicità di applicare il principio nazista secondo cui l’avversario non era solo da tener prigioniero, ma da umiliare e spezzare moralmente.
Il tema di questa operazione fu il saluto fascista. L’esperimento fu eseguito a Tremiti, dove c’erano confinati considerati meno pericolosi , essendo gli antifascisti più pericolosi concentrati a Ponza e Ventotene.
Un giorno fu a tutti ritirato il libretto rosso che ciascuno era tenuto a portare sempre con sé, e sul quale erano elencate le prescrizioni la cui violazione implicava una condanna che poteva andare da un mese a un anno e che non sarebbe stata contata come tempo di confino.
Il giorno dopo il libretto fu restituito a tutti con una nuova prescrizione: l’obbligo di salutare romanamente le autorità. Poche ore dopo c’era la prova del fuoco dell’appello. Quasi tutti risposero all’appello ignorando la prescrizione, furono immediatamente arrestati , imbarcati per il continente e deferiti al pretore di Manfredonia.
La condanna da parte della magistratura avrebbe messo i confinati davanti all’alternativa di cedere o di fare la spola fra un giorno di confino e un numero crescente di mesi di carcere.
Ma accadde allora una cosa assai inverosimile in uno stato totalitario, possibile tuttavia nell’Italia col suo fascismo superficiale. Un piccolo oscuro pretore – di cui nessuno ancora si è occupato di ricercare per rendergli l’onore che merita – osò sfidare l’onnipotente polizia e rifiutò di accogliere la denunzia, dichiarando che la polizia aveva il compito di mantenere nell’isola la disciplina , ma non di imporre opinioni politiche.
La polizia non si rassegnò subito. Tenne le sue vittime in carcere per molti mesi, rinviando a Tremiti solo i pochi che cedevano, poi trasferì i suoi prigionieri di colpo in altre isole, e ripeté il tentativo ancora due volte con altri confinati prelevati da Ponza e Ventotene. Solo al terzo tentativo, di fronte alla resistenza passiva delle braccia che non si sollevavano, la polizia si decise a riconoscere la propria sconfitta e ad ammettere che gli antifascisti avevano il diritto di affermare anche esteriormente questa loro qualità. Il saluto fascista rimase così un atto volontario di coloro che decidevano di capitolare”.
Pare di capire che, se quell’esperimento fosse riuscito, ovvero, se la violazione di quella prescrizione, benché non contenuta né nella legge istitutiva del Tribunale Speciale (dal titolo “Provvedimenti per la sicurezza dello Stato”), né tantomeno nel Codice di diritto penale (il c.d. Codice Rocco), fosse stata ritenuta di rilevanza penale, l’obbligo del saluto romano dopo che a Tremiti sarebbe stato imposto anche negli altri luoghi di confino, consentendo così alla polizia di riportare in carcere tanti internati che non avrebbero mai tradito la loro fede antifascista, a partire da Altiero Spinelli, che di anni di carcere ne aveva già fatti dieci prima di passarne cinque al confino.
In realtà di quel “piccolo oscuro pretore” negli anni successivi ne aveva già parlato nei suoi scritti l’avvocato Mario Simone, anche lui una figura di intellettuale e di politico degno di miglior memoria, che in quegli stessi anni aveva difeso, “rimettendoci anche le sigarette”, gran parte dei confinati che venivano continuamente tradotti con il vecchio piroscafo della Società “Puglia” da Tremiti a Manfredonia per essere processati, spesso dopo qualche mese di attesa in carcere.
E’ lui a ricordarci che quel pretore, “preparato, di sociali sentimenti e antifascista”, si chiamava Roberto Perfetti, originario di Ascoli Satriano, e che reggeva la pretura con l’ausilio di un solo funzionario, il dott. Tommaso Aragiusto “un cancelliere di eccezionale costume morale, di profondo acume e di vasta cultura”.
Mi piace l’idea che, anche in uno stato totalitario, la potente e ramificata macchina del potere punitivo si possa inceppare ed alla fine si debba arrendere di fronte a persone con la schiena dritta, in questo caso ad un giudice, come Roberto Perfetti, che, senza ergersi ad eroe, e rimanendo il “piccolo oscuro pretore” di un paesino, qual era Manfredonia in quegli anni, seppe far valere le ragioni del diritto rifiutandosi di piegarle a quelle del potere politico (e dei possibili vantaggi per la propria carriera).
I tempi cambiano come cambiano i potenti di turno ma le minacce all’autonomia e all’indipendenza della magistratura sono sempre all’ordine del giorno, e non sempre chi è chiamato a farsene garante resta fedele al suo compito.
Mi verrebbe da dire, per concludere con un battuta, che non tutti i giudici sono Perfetti. Continuo però a credere che lo sia la gran parte e che la loro indipendenza debba continuare a costituire un irrinunciabile baluardo per la nostra democrazia.
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